Regionalizzazione dell’istruzione: le ragioni del no

Parlare di autonomia differenziata in Veneto è muoversi in un terreno spinoso, perché la nostra regione fa parte delle tre, insieme a Lombardia ed Emilia- Romagna, che premono per introdurre la regionalizzazione. Opinione di molti è che l’attuazione del disegno di legge Calderoli porterebbe a notevoli vantaggi al nostro territorio.

È opportuno fare alcune riflessioni sull’argomento, per dimostrare che non è tutto oro quello che luccica e che ci sono molte criticità nella regionalizzazione, in particolar modo nel settore dell’istruzione.

Un certo grado di decentramento amministrativo e di autonomia delle regioni sono non solo sanciti dall’ art. 5 della Costituzione ma anche auspicabili, come sta avvenendo in molti stati europei, maggiormente in paesi come la Germania che è uno stato federale.

Non si tratta quindi di contrastare l’autonomia tout court, ma il modo in cui è stata attuata finora e di come si intende attuarla in futuro.

La legge costituzionale n. 3/2001 ha interamente riscritto il Titolo V della Costituzione, in particolare l’art. 117, modificando l’assetto del governo territoriale e sovvertendo i tradizionali rapporti tra Stato centrale ed enti periferici.

In quest’ottica è stato radicalmente rivisto anche il rapporto Stato-Regioni, estendendo la competenza di queste ultime a tutte le materie non espressamente riservate alla potestà legislativa statale.

Questo processo però non è stato compiuto correttamente; si sarebbero dovute varare delle “norme cornice” all’interno delle quali le regioni avrebbero dovuto muoversi a seconda delle esigenze territoriali. Ciò non si è fatto, pertanto le regioni sono andate a ruota libera, e si sono creati così sovrapposizioni e conflitti. Le regioni hanno dato ampia prova di clientelismo e di spreco, si può citare ad esempio quanto successo in Lombardia durante la pandemia del Covid.

La nostra Costituzione ha una dimensione sociale che non va disattesa: prima di pensare alle autonomie è necessario, come sancito dalla Costituzione, realizzare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) in materia di diritti civili e sociali ed attuare degli interventi di perequazione.  In un momento come quello attuale, ove il nostro paese deve affrontare problemi come l’inflazione, la pandemia, la guerra ai confini dell’Occidente, la povertà in aumento, lo stato sociale al collasso, non ci sono assolutamente le condizioni. Insomma, i diritti non sono “regionalizzabili”.

I presidenti della Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna partono dalla convinzione di essere in grado di far funzionare le loro regioni meglio di quanto non sia in grado di fare lo Stato. Per questo chiedono il potere di intervento che la costituzione prevede all’art. 116 c 3 e all’art. 117.  Se però consideriamo gli esiti della regionalizzazione del Veneto ad oggi nel campo della sanità, delle infrastrutture, della tutela ambientale e guardiamo ai referenti politici che abbiamo, in particolare all’istruzione, non osiamo immaginare quali frutti si produrrebbero se le competenze regionali in questo campo fossero allargate. Non deve assolutamente passare l’idea che ognuno fa quello che vuole a casa sua.

La scuola regionalizzata come sarebbe? Si interverrebbe sulle norme generali dell’istruzione, con la regionalizzazione dei programmi e degli insegnanti e dei concorsi. Ci sarebbero quindi programmi veneti, docenti veneti, concorsi veneti. Verrebbe in tal modo limitata la libertà di insegnamento e l’autonomia dei docenti sancita dall’art. 33 della Costituzione. In un momento storico in cui la cultura e il mercato del lavoro hanno varcato i confini dell’Italia e dell’Europa, in cui si dovrebbero allargare i nostri orizzonti, questo restringimento appare antistorico.